Due operai egiziani sono morti a Santa Maria di Sala, nel giardino di una villa, durante la pulizia di una fossa biologica. Avevano 39 e 21 anni. Sono entrati in una cisterna per fare il loro lavoro e non ne sono usciti più. Stroncati dalle esalazioni, con ogni probabilità da gas tossici come il solfuro di idrogeno. Una dinamica tristemente nota, un copione che si ripete ogni anno, ogni mese, spesso nel silenzio generale: il primo scende e non riemerge, il secondo va a soccorrerlo e finisce nello stesso inferno.
Il fatto è che queste non sono “disgrazie” o “incidenti”. Sono morti annunciate, perché si continua a sottovalutare – o peggio ignorare – cosa significhi lavorare in spazi confinati come cisterne, fosse biologiche, serbatoi sotterranei. Ambienti dove la mancanza di ossigeno o la presenza di gas velenosi non sono un’eventualità remota, ma una certezza che va affrontata con mezzi, competenze e responsabilità chiare.
E invece? Operai mandati allo sbaraglio, senza maschere, senza formazione, senza nemmeno un piano di emergenza. Nessuno fuori a controllare. Nessuna attrezzatura per il recupero. Nessuna procedura rispettata.
Le norme esistono, eccome se esistono. Il Decreto Legislativo 81/08 e la norma tecnica UNI 11719 non sono consigli, ma obblighi precisi. Le operazioni in spazi confinati devono seguire protocolli rigidissimi, tra cui:
Valutazione dei rischi specifici e rilascio di un permesso scritto di lavoro;
Monitoraggio preventivo e continuo dell’atmosfera interna, con gas detector certificati;
Ventilazione forzata costante durante l’intervento;
Formazione specifica e aggiornata del personale impiegato nei lavori in ambienti confinati;
Utilizzo obbligatorio di DPI come autorespiratori, imbracature, sistemi di recupero dall’esterno;
Presenza continua di un sorvegliante esterno, addestrato e pronto a dare l’allarme;
Pianificazione dettagliata delle procedure di emergenza.
Ecco cosa deve esserci, sempre, prima di mettere piede in una cisterna. E se uno solo di questi elementi manca, il lavoro non si fa. Punto.
Chi li manda lì dentro, questi lavoratori, si è posto il problema? Ha valutato l’ambiente? Ha spiegato loro il pericolo? Ha fornito un autorespiratore? O ha solo pensato a concludere il lavoro in fretta e senza troppi fastidi?
La realtà è che spesso si fa finta di nulla. Si preferisce risparmiare su tutto: sul tempo, sulla sicurezza, perfino sulla vita delle persone. Si lavora come se fossimo ancora negli anni ‘50, sperando che vada tutto bene. E quando non va bene – come in questo caso – si parla di “tragica fatalità”. No. Queste non sono fatalità. Sono colpe.
Chi commissiona questi lavori, anche se si tratta di un privato cittadino, ha delle responsabilità. Non ci si può limitare a chiamare un’impresa e lavarsene le mani. Se si interviene su una fossa biologica, bisogna sapere che si sta mettendo mano a un potenziale spazio confinato. E chi svolge il lavoro deve avere tutto quello che serve per farlo in sicurezza. Altrimenti, meglio fermarsi.
I sindacati hanno parlato di “strage continua” e di numeri che crescono invece di diminuire. E hanno ragione. I morti sul lavoro aumentano, i controlli diminuiscono, le responsabilità si annacquano.
La verità è che si muore per l’assenza di cultura della sicurezza, per l’indifferenza, per il profitto. E finché si continuerà a trattare la sicurezza come un costo invece che come un obbligo morale e legale, continueremo a leggere notizie come questa.
Due morti. Due famiglie distrutte. E una domanda che resta senza risposta: chi li ha mandati là sotto? E perché nessuno li ha protetti?